Riccardo Orlandi, ambulante di Prato, ci ha parlato del suo lavoro, della passione che lo spinge a svegliarsi ogni mattina all’alba e della “sindrome della rockstar”.
Oggi passo dalla mia rubrica CLIC all’intervista fatta a un amico: Riccardo Orlandi.
D: Riccardo, incominciamo da quando hai capito che volevi fare l’ambulante.
R: È stato per caso. Dopo gli studi in ragioneria ho cominciato a lavorare in una ditta di spedizioni, ma non riuscivo a rendere al massimo e ho capito subito che non era quello che immaginavo per la mia vita. Ho sempre sentito una forte spinta alla libertà e pensarmi costretto in un lavoro così schematico mi faceva paura. Un giorno sono andato con un amico in una ditta che vendeva articoli da regalo e ho notato in un angolo un cumulo di roba rotta. L’ho comprata, pensando ad un annuncio di un mercatino, che avevo visto pochi giorni prima. Ho pagato tutto 100mila lire.
Pochi giorni dopo, vendendone la metà, ho ricavato 800mila lire. Da quel momento, sono passati vent’anni, era il 1996 e non mi sono mai fermato.
D: Un esordio decisamente fortunato. E poi?
R: Poi è stato un crescendo, ho comprato i posti fissi. L’avventura è iniziata con un budget molto basso: al primo mercato usavo come banco un tavolo di legno e una familiare al posto del furgone. Ma una volta in postazione, a Viareggio, sono stato assalito dalla gente, ho guadagnato in una mattina 1milione e 600 mila lire. È stata una giornata incredibile, non riuscivo a trattenere le lacrime, a volte mi chinavo sotto il banco per nasconderle. Da lì è iniziato un susseguirsi interminabile di successi che è durato molti anni.D: Qual è stata, secondo te, la chiave di questo successo?
R: Sicuramente la scelta della merce, ma non solo. Vendevo, e vendo ancora, oggetti per la casa e sono riuscito a sfruttare al meglio il mio estro, un’innata genialità nel capire i prodotti che piacciono alle persone. Inoltre so come esporli al meglio. Capisco quando un oggetto va spostato di 5cm, o abbinato ad un altro, per venderlo il doppio. Soprattutto agli inizi, dedicavo molte attenzioni a questi piccoli accorgimenti che facevano la differenza. È quel che si dice “fare il banco”, è l’aspetto predominante del lavoro. In questa fase, tutt’ora, sento di fare la differenza.
D: Ma prima di arrivare a “fare il banco” ci sono le sveglie all’alba e i chilometri da percorrere. Come funziona e come la vivi?
R: Mi sveglio verso le 5, perché ogni giorno devo fare almeno cento chilometri per arrivare al mercato. Ho un dipendente, ma guido io: mi piace guidare il furgone, più che la macchina. Per un periodo ho sofferto di colpi di sonno, per fortuna è passato. Devo dire che a me gli orari del mercato sono sempre piaciuti, più che altro mi piace l’idea di avere mezza giornata libera. L’aspetto negativo è che dormire poco ti condiziona l’umore, il resto del giorno lo vivi appannato, come se fossi ipersensibile. Però allo stesso tempo sai di essere uno dei pochi che ogni giorno vedi l’alba, mi sento fortunato per averne viste così tante.D: Avrai anche tu, come tutti, quelle mattine in cui non ti va di alzarti. Dove trovi la forza in quei giorni?
R: L’origine di quella forza è cambiata negli anni. All’inizio era il successo. Svegliarmi la mattina per andare a fare quello che volevo, col riscontro che avevo, era un piacere, aprivo gli occhi ancora prima che suonasse la sveglia. La crisi economica e l’età che aumenta hanno cambiato le cose, e quindi negli ultimi anni, a volte è una lotta. Le motivazioni calano, ma tutto sommato mi sveglio volentieri. Ora lo faccio per una forma di rispetto verso il mio lavoro. Lo vedo come se fosse una persona che mi ha dato tanto e ora vive un momento di difficoltà: non posso mollare proprio adesso. Certo, alcuni giorni sono più difficili di altri, specialmente quando il meteo non è dalla mia parte.
D: Parliamo proprio del tempo, del meteo. Quanto condiziona il tuo lavoro?
R: Condiziona tutto: dall’organizzazione pratica del banco, a quanto e cosa scaricare. Il maltempo può fare danni incalcolabili, distruggere la tua attività. È pauroso quando vedi il temporale che si avvicina, il vento che comincia a smuovere le tende, capisci che sta iniziando a succedere qualcosa. A volte mi sento come in mare, come se i tendoni fossero le vele di una barca: devo essere freddo, lucido, perché quando arriva il temporale non hai tempo di scappare, devi gestire la situazione. Il momento peggiore però viene prima, quando sai che qualcosa sta per accadere, la tenda inizia a fare rumori strani e devi decidere come agire. Mi è successo una volta di aver avuto particolarmente paura, più che per me, per il ragazzo che lavora con me. Poi, per fortuna, ce la siamo cavata. La paura del maltempo, comunque, rimane una costante del mio lavoro.
D: È un lavoro, quindi, che richiede una buona dose di coraggio, buona volontà e sopportazione della fatica. Ma qual è, secondo te, l’aspetto che distingue un ambulante dagli altri lavoratori?
R: Il bisogno di libertà, e il rifiuto di essere inquadrato. E poi c’è un’altra cosa che io chiamo “teoria della rockstar”, una cosa molto pericolosa.
D: Spiegacela, non la conosco.
R: Significa che anche agli ambulanti può succedere quello che accade alle rockstar: molto successo, avere a che fare con tante persone e vivere il banco come fosse un palco. A me è capitato di servire in una mattina fino a cinquecento persone, una piccola folla. Lì per lì ti senti importante. Il problema nasce quando il numero di clienti cala: non esiste ambulante che abbia un successo eterno. Molti hanno il loro momento di gloria, ma poi quando quel momento non c’è più, hai meno persone davanti, vendi meno, ti viene la malinconia per i tempi passati. Può essere pesante. Allo stesso tempo il successo che hai vissuto ti crea dipendenza verso questo mestiere. La sindrome da rock star è questa: successo, caduta e dipendenza. Soprattutto la dipendenza, perché chiunque tra gli ambulanti abbia provato a fare altri lavori, poi è tornato indietro.
D: E tu? Pensi farai questo lavoro ancora per molto tempo?
R: No, perché fisicamente è difficile, e perché toglie spazio ad una parte di vita, al tempo da dedicare alle persone che ho accanto. So già che proverò nostalgia della libertà che mi dà. Ho già provato ad aprire un negozio, affiancandolo all’attività nei mercati, ma nel negozio mi sentivo oppresso. Quindi ho deciso di lasciarlo, ho scelto il mercato. Ora nei miei piani c’è l’apertura di un locale, perché vedo qualche similitudine con quello che faccio: il senso di libertà, le persone, il banco. Sto guardando avanti perché l’ambulante è un mestiere per giovani, non è un mestiere per vecchi, anche se non ci sono più i giovani che fanno questo lavoro come lo concepivo io.D: E chi lo fa ora il mestiere dell’ambulante?
R: Ora ci sono prevalentemente extracomunitari. A me sembra una cosa naturale il fatto che questo lavoro vada a loro. È un mestiere che i giovani italiani non vogliono più fare, non c’è stato un ricambio generazionale, considera che io a 48 anni appartengo alla categoria dei giovani. Invece gli extracomunitari hanno iniziato a prendere i posti di chi smetteva. Non è stata una questione di imposizione, anzi, hanno semplicemente coperto il vuoto che si stava formando.
D: Un’ultima domanda: dal punto di vista del cliente la fiera domenicale è una festa, immagino che, invece, dal punto di vista dell’ambulante sia un’opportunità, ma anche una gran fatica. È così? Che differenza c’è tra mercato e fiera?
R: C’è una differenza notevole. Fare mercati e fare fiere sono due mestieri completamente diversi. Una diversità sostanziale sta nel fatto che mentre il mercato è un lavoro a tutti gli effetti, con regole e orari più o meno definiti, per le fiere tutto è portato all’estremo, al limite dell’umano: i cento chilometri diventano trecento, il rientro invece che essere alle due o tre del pomeriggio è a mezzanotte, a volte anche all’una. Le fiere sono logoranti, massacranti. Io ora ne faccio poche, per un periodo ne facevo quasi tutte le domeniche. Lo facevo per soldi ma non solo, anche perché c’era qualcosa che mi dava senso di appartenenza, di importanza. Fare fiere mi faceva sentire migliore degli altri, un eletto.
D: Ancora sindrome della rockstar?
R: Eh, sì proprio quella.
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